mercoledì 12 aprile 2017

CATENA DI INSICUREZZA


Easy Rider
Prendo a prestito dall’alpinismo il termine –catena di sicurezza- che indica l’insieme degli elementi meccanici e la loro disposizione, che collegano l’alpinista alla parete che sta scalando. Normalmente sono corda, moschettoni, dispositivi frenanti o bloccanti, fettucce, imbragatura, ancoraggi,  ecc.
Si intende così una sicurezza standardizzata da mettere in atto a seconda della situazione e che prevede, per il suo buon funzionamento, una buona dose di esperienza. Le Guide Alpine conoscono assai bene questo elemento, semplicemente perché vi hanno a che fare in ogni momento della propria attività.
Capovolgo e stravolgo questo concetto per parlare ora di un fenomeno comune sempre più e, secondo me, terribilmente deleterio ai fini della sopravvivenza della nostra specie. Quella umana.
A partire dal nostro cigolante Club Alpino Italiano per arrivare alle mille Associazioni più o meno lecite e finendo agli utenti più disparati di quello che oggi viene definito come “mondo dell’ outdoor”, negli ultimi, direi 5 o 6 anni, ho notato un impoverimento tecnico e morale a dir poco enorme. Perché?
Secondo me a causa dell’utilizzo improprio della tecnologia e di un crescente benessere economico che hanno fatto dimenticare passione, modestia, amore per la fatica non fine a se stessa e buon senso, ai più.
Non è la prima volta che dico o scrivo che il concetto di sicurezza è un qualcosa di impalpabile, labile e profondamente intimo di ognuno di noi, così come l’insicurezza che ne deriva se, prima di tutto, questo primo elemento così indefinibile non è in equilibrio con un’ infinità di piccoli e grandi elementi fisici e morali.
Ma ora vorrei basarmi su questioni puramente fisiche e meno eteree, per farmi capire meglio e per  non finire in qualche delirio cosmico inutilmente tirato in ballo impropriamente.
Tutto quello che mi posso comprare con il denaro che ho non sono strumenti che mi danno automaticamente la sicurezza di cui ho bisogno! Certo, acquistando e utilizzando una corda da alpinismo ho più sicurezza che se ne usassi una costruita per stendere il bucato, su questo non ci piove.
Ma se mi compro un SUV da 80mila euro e ho una guida incerta, ho paura delle strade strette di montagna e credo che la trazione sulle 4 ruote mi possa sollevare da ogni impiccio, mi sbaglio di grosso. Questo è solo per fare un esempio tra i più eclatanti. Basta guardarsi intorno per notarlo.
Vado avanti con gli esempi.
Quando ero un ragazzo, negli anni ’70 per intenderci, sognavo di avere una Nikon F perché la fotografia era una delle mie passioni più forti. Era la macchina fotografica dei reporter della guerra in Viet-nam e di tutta quella schiera di anarchici giramondo che fotografavano per la Magnum.
Insomma per un appassionato di fotografia era un apparecchio che potevi avere solamente se ci capivi un sacco, anche perché non era piena di automatismi e le foto dovevi farle TU. La Nikon F tutt’al più ti dava una possibilità perché era robusta e aveva tanti accessori e ottime ottiche.
Mi dovetti accontentare di una Praktica russa che mio padre mi comprò su consiglio di uno zio fotografo (il miglior fotografo che abbia mai conosciuto, non scherzo! E averlo avuto come maestro è per me motivo di orgoglio sconfinato) che utilizzai per anni e anni e che mi insegnò con la sua complessità d’uso e il suo peso, un sacco di cose utili.
Fotoreporter anni '70
Oggi un concetto simile fa sorridere perché con qualche centinaio di euro puoi comprarti una reflex professionale che fa ottime foto anche se sei cieco e stupido. Una scorciatoia tutto sommato a buon mercato percorsa dalla maggior parte.
Ma è sul concetto del “merito” che vorrei tornare, ovvero sul fatto che mi sarei meritato una macchina fotografica più professionale una volta che avessi imparato a fare le foto e vi assicuro che a quei tempi riuscirci non era così scontato come lo è oggi.
Macchine fotografiche analogiche
Insomma chi aveva una Nikon F a tracolla era uno che sapeva fare le foto, non era uno che aveva soldi da buttare, era un fotografo vero, uno che portava a casa la pagnotta vendendo fotografie perché sapeva farle.
Così come un motociclista che aveva una Kawasaki 500 o una Suzuki GT550 o una Moto Guzzi 850 Le Mans, era uno che in curva consumava le pedaline sull’asfalto perché sapeva prendere una curva per bene e magari era vestito di jeans (pantaloni e giubbotto) e il casco lo lasciava a chi correva in pista. Tutt’al più indossava un paio di Ray Ban a goccia.
Oggi i motociclisti sono tutti in sella a mostri potentissimi e vestiti come i piloti del motomondiale ma hanno una guida incerta, per nulla fluida e prendono le curve traballando per accelerare subito dopo al primo rettilineo per iniettarsi la certezza di essere sul mezzo giusto. Ma la moto è bella in curva. In rettilineo è una palla mostruosa.

La mia generazione è cresciuta senza seggiolini da auto e senza cinture di sicurezza. Un livello di selezione elevatissimo ma che ci ha resi pragmatici e robusti, quindi inadatti al mondo di oggi fatto di gingilli e paccottiglia luccicante in vendita atta a garantirti una falsa sicurezza.
Moto Guzzi 850 Le Mans
Si, si mi direte: se cozzi su un sasso mentre scii e non hai il casco ti rompi la testa. Come non essere d’accordo? Ma il sentirsi sicuri mentre si fa qualcosa non passa necessariamente attraverso l’avere quello che il sistema (e forse anche la legge, giusta o no che sia) passa e omologa come indispensabile.
Mia figlia Isa in pista
Mia figlia al compimento del quattordicesimo compleanno come regalo mi ha chiesto di poter sciare senza casco. Sull’iniziale  e lecita preoccupazione genitoriale ha poi prevalso la razionalità secondo me, ovvero: aveva ragione a chiedermelo. Sulla pista affollata si mette il casco ma fuoripista no. Con la mia totale approvazione di padre che crede nella libertà. Anche di rompersi la testa!
E’ un concetto avvertibile da chi va a fondo delle cose, per questo mi fa fare fatica a spiegarlo a chi si sente sicuro solo se esce da un negozio con la migliore attrezzatura o guida un’auto costosa o ha una casa ermetica e falsamente minimale. Questi personaggi normalmente non si spingono oltre la soglia del facile sentiero marcato se hanno un minimo di buon senso e il loro istinto di conservazione, se mai ne hanno uno, ha un minimo di vitalità. Anche se sono equipaggiati come se dovessero andare sul K2. Diversamente si mettono in casini inenarrabili, anche perché appesantiti da tutte quelle cianfrusaglie che rendono l’essere dinamici un’utopia. E la natura è perennemente dinamica.

Una delle scorciatoie più praticate ultimamente è quella della teorizzazione della gestione del rischio o risk management, che suona più sicuro per gli insicuri, dico io.
Una serie di elementi riportati su test e grafici ci dice alla fine cosa possiamo e cosa non dobbiamo fare prima di affrontare un sentiero, una gita con gli sci o una scalata. La chiamo scorciatoia perché, come le rughe sul viso di Anna Magnani (che non voleva togliersele perché c’aveva messo tanto tempo a farsele venire), serve un sacco di tempo a farsi la necessaria esperienza utile a riconoscere e a limitare il rischio laddove c’è. E quel limite che esiste sicuramente, non è lo stesso per tutti. Si chiama esperienza ma nessuno o quasi la nomina più, perché è una cosa lunghissima da ottenere anche in solo in minima parte, figuriamoci in dose massiccia. E poi non da certezza perché per quanta uno ne abbia non è mai abbastanza. Non rende appagati l’esperienza, perché non finisce che con la morte e questo non piace a nessuno. Non si può dire con certezza matematica (invece dopo un autotest sul risk management ci si sente appagati, autorizzati e pronti) che l’esperienza che abbiamo ci salverà di sicuro, quindi ben venga qualcosa che la sostituisca e la renda altrettanto appagante, certa e veloce da ottenere. Io la chiamo presunta esperienza, ma oggi i guru la definiscono come sicurezza.